Greta Rosso – Ma io scrivo poesie con le ginocchia

13 agosto 2012 § 5 commenti

Ricevo e pubblico, da Giuseppe Martella, la recensione al mio Cronache precarie (Aìsara, 2009).
Come sempre queste cose mi stupiscono e mi fanno moltissimo piacere. Qua, poi, mi ci ritrovo (brutalmente detto) abbestia.

Greta Rosso – Ma io scrivo poesie con le ginocchia

Cosa fa un poeta quando non pubblica? Che cosa accade tra una raccolta e l’altra? Fino a qualche anno fa, fino a quasi quarant’anni fa (dopo il crollo del palco di Castel Porziano, per intenderci) i poeti pubblicavano plaquette, partecipavano a reading, coltivavano la propria immagine, indulgevano al culto di sé. Tutto sommato erano integrati.
Ma cosa succede a un poeta, in questi anni, tra una raccolta e l’altra?
Finora Greta Rosso, poco più che trentenne, nata quindi pochissimi anni dopo il crollo del palco di Castel Porziano, ha pubblicato una raccolta di poesie, per Aìsara, nel 2009, intitolata Cronache precarie, una manciata di Poesie a Dio (si trova on-line). Altri suoi testi sono stati pubblicati alcuni anni fa su Nazione Indiana.
In questi mesi la Rosso sta lavorando alle bozze della sua seconda raccolta. Spesso aggiorna il suo blog, strepitio (link: https://strepitio.wordpress.com/), che affolla di testi per lo più brevi. Un blog cantiere, un lavoro in corso impudicamente messo sotto gli occhi di tutti.
Proprio in questi giorni la Einaudi ha pubblicato, per la cura di Giovanna Rosadini, la sua sesta antologia di nuovi poeti italiani, e l’ha dedicata alle poetesse. È forse la prima volta che l’occhio di un editore così importante si ferma per osservare la produzione poetica di sole autrici. Tra gli assunti che la Rosadini pone all’inizio dell’antologia spicca questa considerazione: a differenza di autori maschi le donne non avrebbero l’ansia di adesione stilistica (non solo stilistica) a modelli di riferimento, a figure di autorità e, sempre a differenza dei poeti, le poetesse avrebbero una versificazione più corporale, meno celebrale e mentalizzante.
Una considerazione che forse vale come riferimento di massima, una considerazione non dogmatica. Eppure basta leggere alcuni versi della Rosso per avere una prima, e felice, smentita. Cronache precarie si apre con questi versi: “Gli uomini disperati / mettiamoli nelle vie di Parigi / alle cinque di mattina”. E si chiude con questa serie di parole: “io credo nei miracoli / nelle cose impossibili che nella vita / ci si compiono davanti agli occhi”. Questi sei versi sono la staccionata che isola e definisce il (forse poco consapevole) programma di questa prima raccolta: un piglio, un gesto di allontanamento, uno sgomberare il campo, seguìto poi da un atto di fiducia: “io credo”. Da un atto di fedeltà, meglio.
Ma perché l’assunto della Rosadini, che pure non è stato pensato per i versi della Rosso, non può servire nemmeno come indicazione di massima? Per diverse ragioni. È un fatto che non è possibile intercettare in queste poesie nessun maestro, nessun padre da tradire o da disattendere (con l’eccezione di Sanguineti, forse, che lavora in queste pagine come modello espressivo, come calibro per la versificazione, niente di più), ma è pur vero che è possibile ritrovare molti versi che ricordano poeti uomini (penso a Giovanni Giudici ed Eros Alesi) che forse Rosso avrà letto di sfuggita, e che agiscono come semplici mattoni per una costruzione del tutto nuova. Giudici sembra affiorare quando la cronaca quotidiana dell’intimità si chiude nella malinconia: “gestirci, mangiare, chiacchierare, / insomma, la legge della naturalità”. E Alesi sembra riapparire nell’uso percussivo (stando alla lettura di Alesi che ne ha dato Manacorda) di simili versi, scanditi da una interpunzione dura: “. a dirsi che tutte le / vecchie forbici / hanno segni, sottili / tracce di ruggine”.
Tutto questo accade in una scrittura piuttosto istintiva (istintiva, non ingenua) che sembra avere scordato ogni versificazione canonica dopo avere trovato un ritmo tutto interno, personale, che spesso non si accontenta di sé e sfora verso la prosa lirica, come esemplifica la sezione intitolata Racconti in forma di cinque righe.
Greta Rosso sa scrivere in endecasillabi ma non vuole farlo, saprebbe organizzare in sezioni organiche i propri testi ma non è interessata a realizzarle compiutamente (la prima sezione della raccolta è stata intitolata Senza progetto), e cede volentieri il compito all’editore. In questo atteggiamento c’è uno sprezzo per il “compiuto” che si riversa in molte poesie come il rovescio, scuro e senza riflessi, della fedeltà nel miracolo (quotidiano, corporale): “ ‘Mi fai vedere la schiena?’ gli chiede. / Lui si gira e si alza la maglietta. / Lei non vede niente.”
Quello che stupisce in queste pagine è l’uso di un occhio assoluto che guarda senza pietà e di una mano che trasporta su carta ogni dettaglio oggettivo, ogni sussulto, ogni strepito della visione e della percezione: “Quando stamattina mi sono vista passare davanti allo specchio / ho capito che ero morta e aspettavo il treno / e che fino alle 9,33 / erano cinque minuti senza tempo”.
Nonostante l’uso forsennato della prima persona singolare (inseguito di misura dalla prima persona plurale), non ha senso parlare di poesia lirica o metafisica. Dal dettaglio non nasce una visione, al massimo una constatazione di impotenza: “Arrivo ora a identificare la cosa chiamata amore con uno scambio di batteri”, o di disarmato disprezzo mascherato da invidia: “Ne sapevo abbastanza di quelle donne / che diventano più belle ogni giorno che passa: basta accarezzare loro la nuca e il capezzolo s’ispessisce”.
Non sembra che la Rosso voglia registrare su versi, a volte molto lunghi, proprie credenze o condizioni individuali; i suoi versi non hanno nulla di impressionistico, anche se non è poco lo spazio dedicato a scorci descrittivi. Sembra piuttosto che tutta la carica conoscitiva di queste poesie sia concentrata negli incipit (“come si scrive inventariato? te lo dico io: / si scrive con la lista precisa dei corpi che siamo stati), che urtano la superficie della realtà percepita per vedere cosa ci sia dietro.
E non sembra che, almeno per ora, ci siano risposte. Sarà necessario aspettare i versi che saranno pubblicati a breve, e accontentarsi del fatto che la poesia è per lo più graphìa, incisione (alla lettera: incisione) delle cose percepite. Ancora prima delle risposte, spesso tutto sta nel sapere porre le domande, anche urlate: “Chi mi ha messo le poesie nelle mani?!”.

Giuseppe Martella

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